Finalità dei Fondi strutturali



L'Unione europea non è un'area economica omogenea. Esistono fra i diversi Stati e, ancora di più, fra le diverse regioni che ne fanno parte profonde differenze economiche e sociali.

Non è facile definire i problemi regionali, ma forse la maggiore difficoltà non consiste nella loro identificazione, "quanto nello spiegarli e ancora di più nel modo di risolverli. I problemi regionali si riferiscono al persistere di grosse disparità tra le diverse regioni della stessa nazione in termini di reddito, produttività e di livelli di occupazione, per nominare soltanto alcuni degli indicatori economici più rappresentativi."[1]

Tali differenze sono difficilmente spiegabili se ci si basa sulla teoria economica neoclassica e sulle ipotesi sempliciste su cui si fonda, che concernono in particolare l'esistenza di: concorrenza perfetta; perfetta mobilità dei fattori produttivi; identiche funzioni di produzione e quindi assenza di differenze tecnologiche tra i paesi; rendimenti costanti di scala; identiche funzioni di utilità e pertanto identità di gusti tra i consumatori delle diverse regioni.

In base ai primi modelli neoclassici[2], la convergenza economica tra i diversi paesi dovrebbe avvenire in modo automatico, essenzialmente ipotizzando rendimenti decrescenti per i singoli fattori produttivi (in particolare per il capitale). I paesi più poveri, di conseguenza, dovrebbero avere tassi di crescita più elevati.

In realtà, come dimostra l'evidenza empirica, questo non sempre è vero. Spesso, anzi, è vero il contrario, e i paesi con reddito pro capite più elevato, sono anche quelli che crescono più rapidamente.

Le più recenti teorie dello sviluppo economico (ad esempio i modelli di crescita endogena[3]) e le nuove teorie del commercio internazionale[4], cercano di spiegare tale situazione partendo da ipotesi diverse da quelle neoclassiche. Sia in campo nazionale che internazionale sono prevalenti forme di concorrenza imperfetta tra le imprese, imperniate soprattutto su rilevanti economie di scala nella produzione (rendimenti crescenti), intensi processi di differenziazione dei prodotti e continui mutamenti delle tecnologie.

Secondo queste teorie, senza interventi esterni (il Governo), è difficile prevedere se vi sarà o meno convergenza; il tasso di crescita non dipende più solo dalle dotazioni fattoriali, ma ha natura prettamente dinamica, e in qualche modo casuale e/o temporanea. Se non si dà la giusta importanza al capitale umano o al progresso tecnologico (esogeni nei modelli neoclassici), fondamentali per lo sviluppo, vi è il rischio che l'economia cresca ad un tasso inferiore rispetto a quello ottimale.

Tra i paesi dell'Unione europea è in atto un processo di integrazione economica e sociale, come mai si era visto nella storia. In alcune materie, come l'agricoltura, la legislazione in materia di concorrenza e la libera circolazione delle merci, gli aiuti di stato alle imprese, esiste già una politica comune e presto, si avrà anche una anche un'unica moneta.

L'integrazione comporta diversi vantaggi, ma anche degli svantaggi per alcune regioni e per alcuni settori produttivi. E' possibile, infatti, che i benefici dell'integrazione possano distribuirsi in modo ineguale tra i paesi membri, favorendo alcuni settori (e regioni) che già in partenza presentavano vantaggi competitivi[5].

Le politiche regionali a livello comunitario, quindi, oltre ad avere valenza in se stesse, come mezzo per rafforzare la coesione economica e sociale e per ridurre le disuguaglianze, hanno come ulteriore obiettivo quello di compensare gli svantaggi legati all'integrazione economica (o di ridistribuire i vantaggi), soprattutto per le regioni e i settori più sfavoriti.

Inoltre, mentre fino a pochi anni fa le prospettive di un'unione monetaria in Europa, apparivano molto incerte, le cose sono cambiate rapidamente a metà degli anni '80, quando si delineò una nuova situazione politica che favorì nuove drastiche iniziative verso l'integrazione economica.

La teoria delle aree ottime della moneta induce ad un certo scetticismo nei confronti dei vantaggi di unione monetaria, anche se la moderna letteratura, ponendo l'accento sui temi della credibilità, è molto meno pessimista.[6] I principali costi di un'unione monetaria sono legati alla rinuncia allo strumento del tasso di cambio. Questo significa che i paesi meno competitivi, nel caso in cui diminuisca la domanda dei loro prodotti, non potranno più fare affidamento sulla svalutazione della loro moneta e l'aggiustamento dovrà quindi avvenire per altra via.

Supponiamo che due paesi, ad esempio la Spagna e la Germania, uno dei quali ha un'economia più competitiva dell'altro (la Germania), decidano di rinunciare alla propria moneta per adottare una moneta comune; nel caso di variazioni della domanda, esiste un meccanismo che possa condurre ad un riequilibrio automatico senza che i paesi debbano ricorrere a svalutazioni o rivalutazioni?

In base alla teoria delle aree ottime della moneta, la risposta è positiva, anche se comporta dei costi:

Innanzitutto, deve essere soddisfatta almeno una delle seguenti condizioni: il salario è sufficientemente flessibile; vi è sufficiente mobilità del lavoro.

Inoltre, un elemento che facilità la costituzione di un'unione monetaria è un bilancio sufficientemente centralizzato che consenta di realizzare senza problemi (e non dopo una serie di contrasti politici) i trasferimenti tra i paesi dell'unione.

- La prima possibilità è che il paese meno competitivo (la Spagna) riduca la remunerazione del lavoro, in modo tale da rendere più conveniente il proprio prodotto (deflazione). E' anche possibile che l'aumento della domanda in Germania porti a spinte inflazionistiche e, di conseguenza, ad un aumento del salario; in questo caso è il prodotto tedesco a diventare meno conveniente con conseguente riequilibrio.

- La seconda possibilità fa riferimento alla mobilità del lavoro: i lavoratori disoccupati della Spagna emigrano in Germania per far fronte all'aumento della domanda di lavoro in tale paese.

Naturalmente non si tratta di soluzioni prive di costi: ridurre il costo del lavoro in un paese comporta sempre notevoli sacrifici per ampi strati della popolazione. Lo spostamento dei lavoratori da un paese all'altro, inoltre, può avere effetti perversi sulle disparità regionali; infatti, l'emigrazione verso aree in rapido sviluppo è solitamente composta dai membri più dinamici e maggiormente qualificati della manodopera presente nelle regioni più arretrate.

Nel caso degli Stati federali, come la Germania o gli USA, il riequilibrio può avvenire in modo diverso. In Germania, per esempio, "i Länder le cui entrate fiscali scendono al di sotto di un livello prestabilito ricevono un contributo dai Länder le cui entrate fiscali superano tale livello. (…) Questo sistema (insieme alla redistribuzione automatica dovuta alla centralizzazione del bilancio federale) ha avuto l'effetto di ridurre le differenze di reddito regionali nella Germania dell'ovest e inoltre ha contribuito a rimuovere le notevoli disparità regionali, che caratterizzano invece paesi come l'Italia e la Spagna."[7]

Ora, come si è visto, la Comunità europea va sempre più assumendo i caratteri di uno stato federale, ma vi sono ancora notevoli differenze[8]. Negli Stati federali, in particolare, la previdenza sociale è di competenza del potere centrale, in questo modo, nel caso di shock macroeconomici non perfettamente correlati, il costo è sopportato dalla comunità nel suo complesso e non dalle singole autonomie locali.

Anche se nell'ambito dell'Unione europea, le difficoltà economiche e i ritardi di sviluppo delle regioni e dei paesi che ne fanno parte, possono essere considerati problemi regionali[9]. una soluzione del genere, almeno per il momento, è molto improbabile. Nell'ambito dell'Unione, infatti, la predisposizione degli Stati a compiere trasferimenti redistributivi all'interno dei propri confini supera quella relativa ai trasferimenti ad altre regioni ugualmente bisognose.

Dunque, almeno per il momento, la politica di coesione, facendo da contrappeso al mercato interno e all'Unione economica e monetaria è un elemento essenziale per il successo del modello d'integrazione europeo perché favorisce la convergenza delle regioni meno favorite e accresce, di conseguenza, il potenziale economico globale dell'intera Unione.

 
                                                  Michele Bussu         michelebussu@yahoo.com 



[1] Tsoukalis, L., The New European Economy. Second Revised Edition, Oxford, Oxford University Press, 1991, 1993 (trad. ita. di Collesi, P., La nuova economia europea, Bologna, Il Mulino, 1994).


[2] Ad esempio, Solow 1956.


[3] Per esempio, Lucas 1988 e Romer 1986 e 1987.


[4] Un'esposizione tecnica di nuovi modelli di commercio internazionale si trova in Helpman E., Krugman P., Market Structure and Foreign Trade: Increasing Returns, Imperfect Competition and the International Economy, Cambridge, MIT Press, 1985


[5] Guerrieri, P., Concorrenza imperfetta e politiche commerciali, Un approccio di economia politica internazionale, Milano, Franco Angeli, 1989. L'autore evidenzia che anche nel caso in cui ci si allontani dalle ipotesi tradizionali del modello neoclassico, è possibile dimostrare la convenienza della liberalizzazione degli scambi e di una maggiore integrazione economica tra i paesi considerando fattori diversi dalle dotazioni fattoriali, quali le economie di scala, la differenziazione dei prodotti e la tecnologia.

E' comunque necessario che vengano fissate regole e norme anche per le politiche macroeconomiche, così da garantire condizioni di crescita e stabilità dell'attività economica tra e all'interno dei paesi partecipanti al processo di integrazione.

E dal momento che una maggiore integrazione comporta più intensi flussi commerciali tra i paesi, garantire a tutti i partecipanti all'accordo adeguati ritmi di crescita diviene un compito più necessario e difficile allo stesso tempo. Il successo dell'integrazione dipende dalla crescita e non viceversa.


[6]De Grauwe, P., The Economics of Monetary Integration, Oxford, Oxford University Press, 1992 e 1994. (trad.ita. di Balugani, F., Economia dell'integrazione monetaria, Bologna, Il Mulino, 1993)


[7] De Grauwe, P., The Economics of Monetary Integration, Oxford, Oxford University Press, 1992 e 1994. (trad.ita. di Balugani, F., Economia dell'integrazione monetaria, Bologna, Il Mulino, 1993)


[8] La seguente tabella offre un confronto fra i poteri così come sono distribuiti nelle federazioni (per esempio, Usa, Germania, Svizzera, Canada) e nella Comunità europea:









Federazioni

Comunità







tipiche



europea


Difesa nazionale




F




S

Relazioni internazionali

F



F/S

Previdenza sociale



F



S

Agricoltura





F



F

Politica monetaria



F



M

Politica commerciale



F



F/S

Politiche per la concorrenza

F/S



F/S

Servizi pubblici



S



S

Trasporti





S



S

Pensioni





S



S









Legenda: F (S) denota una funzione eseguita a livello federale (statale); F/S

funzioni ripartite fra livello federale e statale; M si riferisce invece a funzioni

eseguite a livello federale dopo una piena realizzazione degli obiettivi del

Trattato di Maastricht.

Fonte: Centre for Economic Policy Research (CEPR), Making Sense of Subsidiarity: How Much Centralization for europe?, London, CEPR, 1993, (trad.ita. di Dognini,G., La distribuzione dei poteri nell'Unione europea. Il principio di sussidiarietà nel processo di integrazione europea, Bologna, Il Mulino, 1995).


[9] Questo è evidente soprattutto se si considerano le politiche strutturali della Comunità e la disciplina che regola gli interventi nazionali nelle aree depresse.

In base all'art.92 del Trattato CE, gli aiuti statali alle imprese, sotto qualsiasi forma, se falsano o rischiano di falsare la concorrenza, sono vietati. Sono previste eccezioni per le regioni svantaggiate, ma anche in questo caso, l'intervento statale, è e sarà sempre più spesso possibile solo nell'ambito delle politiche comunitarie.


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